🍈🍈🍈 #TIROMANCINO - In Maremma è iniziata davvero la “guerra” dell’olio. Colture specializzate versus superintensive
Sarà una battaglia campale, checché se ne dica. Quella tra olivicoltura intensiva (1.000-1.200 piante/ettaro) e superintensiva (1.600-2.300), da una parte, e olivicoltura tradizionale (100-150 piante/ettaro) e specializzata (fino a 400), dall'altra. Con tutte le soluzioni culturali intermedie del caso, a seconda delle varietà di piante di olivo scelte.
Sintetizzando ancora di più un confronto che ha mille sfaccettature, e citando il film di Spielberg del 2005, si potrebbe parlare di una putativa “guerra dei mondi”. Oppure, tirando in ballo Tolkien, della competizione tra i due continenti di Arda (la terra): Aman e la Terra di mezzo. Ma in verità una sfida molto più terragna delle amenità fantascientifiche partorite da menti fertili perse nelle proprie metafore.
Perchè oggi in Maremma (Italia) la tradizionale e prodigiosa coltura dell’olio d’oliva, che affonda le proprie radici nelle civiltà mediterranee dei secoli passati, viene sfidata in nome della produttività (e quindi del profitto) dalla cosiddetta olivicoltura ad alta intensità: intensiva o superintensiva.
In Spagna, leader mondiale nella produzione di olio d’oliva con in media 1,5 milioni di tonnellate (quest’anno solo 660mila), le colture intensive e superintensive le hanno inventate una trentina d’anni fa. La Agromillora, azienda che detta legge nella selezione genetica di cultivar superintensive, ha messo a punto le due varietà culto Arbosana e Arbequina, grazie alle quali la penisola iberica è diventata il principale produttore mondiale di olio extravergine di oliva (Evo). Determinandone il prezzo sui mercati internazionali.
L’Italia, nel frattempo, rimasta ancorata all’approccio colturale tradizionale, o meglio, all’oliveto specializzato, ha perso terreno. Passando dalle 650mila tonnellate del 1992, alle 300-350mila degli ultimi dieci anni. Quest’anno, che a causa di primavera piovosa ed estate-autunno torridi è stato pessimo in tutto il Mediterraneo, il Belpaese si fermerà intorno alle 250mila tonnellate di prodotto. Ciononostante, negli anni l’Italia - che rimane il secondo produttore mondiale di olio Evo (extravergine d’oliva) – si è specializzata nelle produzioni a “indicazione geografica” (Ig) che garantiscono un valore aggiunto più elevato: 42 olii a marchio Dop e 7 Igp (compreso il Toscano). Che ad ogni modo costituiscono appena il 3% del totale.
Ma c’è dell’altro. A fronte di una produzione media di 300-350mila tonnellate, l’Italia ne esporta mediamente ameno 300mila, ne importa 5-600mila tonnellate e ne consuma 480mila (in media 8 kg a testa). Se la matematica non è un’opinione nel nostro estroso Paese si consuma e si esporta molto più olio di quanto se ne produca. In questo quadro, la Toscana, che produce il 5% dell'olio, confeziona il 35-40% di quello imbottigliato in Italia. Il che dimostra, intanto, che esportiamo e consumiamo molto olio Evo di origine non nazionale. Ma anche quanto siano ridicoli, oltre che evidentemente in malafede, tutti gli editti “sovranisti” contro l'importazione dell'olio dal Nordafrica e in generale dall’estero. Con buona pace di certe patetiche esaltazioni dell'autarchia di produzione e consumi, che nel mondo reale non trovano affatto cittadinanza.
QUI GROSSETO
Ma come se la cavano la nostra regione e la provincia di Grosseto in questo contesto? La Toscana, con poco più del 5% della quota nazionale, è la quarta regione italiana (dietro Puglia, Calabria e Sicilia) per produzione di olio Evo, con 16-20mila tonnellate all’anno. L’Igp Toscano, quasi tutto prodotto lungo la fascia costiera, è il secondo olio a indicazione geografica in Italia, dietro alla Dop Terre di Bari. Il 70% dell’olio certificato Igp Toscano è destinato all’export (perché col brand Toscana si vende anche “l’olio esausto” di un motore) e in provincia di Grosseto – dove si superano abbondantemente i 20.000 ettari a oliveti - se ne produce la metà del totale. Non è un caso che proprio in Maremma, nell'area produttiva del Madonnino accanto al grande frantoio di Olma (con la capacità di lavorare fino a 90mila quintali di olive), ci sia un gigante come Certified Origins Italia, società che confeziona olio Igp Toscano e Italiano, con un fatturato 2022 di 138 milioni di euro. Soggetto economico costituito nel 2009 da Olma, Coop Montalbano e la Candor (ispano-americana), proprio per presidiare l’export dell’olio extravergine d’oliva (e del pomodoro da industria) italiano e spagnolo.
Tutto ciò premesso, l'olivicoltura specializzata, fino a 400 piante a ettaro, è oramai in crisi di redditività da anni. Soprattutto quella collinare e pedemontana, dove non si può ricorrere a nessuna forma di meccanizzazione della raccolta delle olive. Con costi di produzione che spesso superano i ricavi, a seconda di come vanno annualmente i raccolti. Motivo per cui la metà degli oliveti con queste caratteristiche sono praticamente abbandonati a sé stessi.
È sostanzialmente questo il motivo per cui, da qualche anno a questa parte, in modo più visibile a partire dal 2020, la provincia di Grosseto sta assistendo ad una vera e propria esplosione delle colture intensive e superintensive, con diversi nuovi grandi impianti dai 100 ettari in su, ma anche con un numero crescente di aziende di piccole e medie dimensioni che affiancano ai propri oliveti già esistenti nuovi appezzamenti di dimensioni contenute con impianti super intensivi. Per testarne la riuscita.
Tra Braccagni (Gr) e Giuncarico (Gavorrano), a nord del capoluogo, si estendono a perdita d'occhio i filari dei nuovi olivi ad alta intensità, perlopiù di Arbequina e Arbosana, piantati dal 2020 a oggi dalla Arte Olio. Società sostenuta dal fondo di private equity Verteq Capital, che nel grossetano ha investito oltre 40 milioni. Rocco Delli Colli, imprenditore italo svizzero della ristorazione, invece, ha puntato sull’intensivo (1.000 piante/ettaro) rilevando tre aziende a Scarlino, Campagnatico e Orbetello: 500 ettari a conduzione bio con cultivar autoctone (Leccio del Corno e Maurino Vittoria) per imbottigliare Igp Toscano. Monini, marchio umbro del made in Italy, ha acquistato il borgo rurale di Perolla (Massa Marittima), dove ha piantato 245 ettari con 350mila ulivi. Altri 100 ettari intensivi e cultivar toscane li ha piantati Antinori a Gavorrano. L’azienda agricola Nuova Casenevole di Civitella Paganico. In attesa che Farchioni (con Bonifiche Ferraresi) decida cosa fare dei 750 ettari rilevati dalla Provincia di Grosseto alla Diaccia Botrona (Grosseto). Fino alle piccole aziende dedite all’olivicoltura tradizionale e specializzata a marchio Igp Toscano, che stanno investendo in nuovi impianti intensivi e superintensivi.
Il perché di questo boom è presto detto: un ettaro a oliveto specializzato tradizionale garantisce nella migliore delle ipotesi una produzione di 35-40 quintali di olive. Mentre la stessa superficie di terreno con coltura olivicola superintensiva – da 1.600 a 2.300 piante - con le varietà iberiche Arbosana e Arbequina può in teoria arrivare a produrre da 120 a 150 quintali di olive. Poi, come soluzioni ibride, ci possono essere colture di tipo intensivo, oppure varietà diverse sia autoctone adattate alla coltura olivicola ad alta intensità, come Leccio del Corno e Maurino Vittoria, sia cloni selezionati attraverso incroci come quelli messi a punto dall’Università di Bari in collaborazione con la società spagnola Agromillora: Lecciana® (Leccino + Arbosana), Coriana® e Oliana®. Ad ogni modo, è evidente che da un punto di vista produttivo e di redditività non ci può essere confronto con la coltura tradizionale o specializzata.
Fra l'altro le piante di olivo con varietà intensive e super intensive hanno la caratteristica delle dimensioni contenute – alte fino a un metro e mezzo - di essere a bassa vigoria (sviluppano poco legno) e di entrare in produzione precocemente (2 o 3 anni). Tutte caratteristiche che consentono una raccolta e una potatura meccanizzate con le cosiddette “scavallatrici”, che abbattono enormemente i costi di gestione degli oliveti innalzando in parallelo ricavi e utili. Questo tipo di colture – definite a siepe o a parete - costituiscono peraltro un problema non banale sotto il profilo paesaggistico, perché si configurano come filari omogenei che visti da lontano somigliano a quelli delle vigne e di fatto stravolgono la tipicità del paesaggio rurale toscano così come lo conosciamo dal Rinascimento. Una composizione di grande effetto estetico costituita da colture promiscue come cereali, vite, olivo, alberi da frutto, orticoltura, con grandi superfici boscate, che ha connotato nei secoli l'immaginario collettivo relativo alla nostra regione. Con benefici evidenti in termini turistici e reputazionali.
Come tutte le colture intensive, inoltre, gli oliveti ad alta intensità (intensivi e superintensivi) comportano il compattamento dei terreni, l’utilizzo diffuso di fitofarmaci per prevenire lo sviluppo di fitopatologie e l’impiego massiccio di acqua attraverso l’irrigazione di sostegno (impianti a goccia). Che a loro volta richiedono la realizzazione di invasi, pena il depauperamento della falda idrica e l'ingressione del cuneo salino.
Come si vede, quindi, non ci sono “pasti gratis”. Perché qualunque sia la scelta colturale - anche ammesso e non concesso che le varietà super intensive si adattino presto e bene a clima e tipologie di terreni – vanno soppesati pro e contro.
Una delle preoccupazioni principali, infine, riguarda la competizione in termini di prezzi e di presidio di mercato fra l'olio Igp Toscano e l’olio italiano o Igp proveniente dalle colture di nuova generazione. Tutti quanti, anche se ufficialmente viene negato, temono che i produttori superintensivi colonizzino gli scaffali con olio a prezzi bassi, che metterebbe alla lunga fuori mercato l’Igp Toscano, ma anche le più piccole Dop territoriali. I fautori di intensivo e superintensivo sostengono di non voler abbassare i prezzi, ma di ambire a conquistare nuove fette di mercato. L’olio italiano e toscano certificato richiesto dai consumatori, infatti, è molto meno di quello che viene prodotto. Per cui ci sarebbe spazio per tutti.
Possibile, alla fine della fiera, che venga fuori un compromesso: tipo che l'olivicoltura tradizionale e specializzata - in collina, montagna o pianura che sia - venga sostenuta con contributi della Pac per garantire biodiversità delle cultivar, paesaggio e presidio idrogeologico del territorio. Mentre in pianura si svilupperà l'olivicoltura ad alta intensità, in virtù delle condizioni più favorevoli alla meccanizzazione e alla redditività. Se poi, nel frattempo, i consumatori iniziassero a maturare, come è già avvenuto nei decenni passati per il vino, una più marcata competenza a riconoscere e apprezzare le differenze fra gli oli extra vergine d'oliva, potrebbe finalmente decollare un mercato diversificato con tante etichette e tipologie di olio che gli addetti ai lavori auspicano da tempo.
Nel frattempo, la disfida rusticana tra olivicoltura tradizionale/specializzata e intensiva/superintensiva è rappresentata icasticamente dai profili dei due grandi frantoi che si guardano in cagnesco a poco più di un chilometro di distanza l'uno dall'altra in linea d'aria: quello dell'Olma al Madonnino di Braccagni, e quello di Arte Olio nell'area produttiva nel Comune di Roccastrada.
https://www.aboutoliveoil.org/north-american-olive-oil-association-announces-nations-most-comprehensive-olive-oil-testing-study?utm_campaign=2023-11%20Testing%20Study&utm_medium=email&_hsmi=282861360&_hsenc=p2ANqtz-_rEwsuu7BaRieAk2hyn221_RaRbKK8Y1RhhhZs7XWOzbbPu093_D4zPqL_HE_lMcKowwNaINyo42lmMlgbh7CwYxIY4g&utm_content=282861360&utm_source=hs_email
RispondiEliminaAncora una volta non vengono considerate possibilità di una nuova olivicoltura, nel territorio centrale della toscana, dove la gestione olivicola ha lanciato le alte qualità dell'olio. Non a caso il nome di Firenze, Chianti, coline fiorentine ecc. In questi territori si può fare olivicoltura in parete con le nostre cultivar, mantenendo territorio e qualita'. Purtroppo isi parla solo di modello Spagnolo e di piante di agrimillors distruggendo tutto quello che abbiamo
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