🔴🔴🔴 #tiromancino - Agricoltura: cinghiale in umido coi germogli di bambù nel futuro fusion della cucina maremmana
Non è né una boutade, né una provocazione. Ma potrebbe essere uno dei segnali che, in coerenza con ciò che in generale è sempre successo nel corso del tempo, l’agricoltura si sta evolvendo. E che in particolare la provincia di Grosseto, indubbiamente a forte vocazione agricola, sta proprio sulla frontiera dell’innovazione. Anche nel campo delle coltivazioni. Con buona pace dei custodi, immaginari, delle colture tradizionali e del paesaggio. Che mimetizzano il proprio passatismo culturale inneggiando ad ambientalismo e biodiversità.
Tornando al cinghiale in umido coi germogli di bambù. È di questi giorni la notizia dello sbarco a Castiglione della Pescaia della “Forever bambù”, società milanese leader europea nella produzione e commercializzazione del bambù gigante, che ha una gamma impressionante di utilizzi: alimentare, cosmetica, edilizia, falegnameria, biomassa per produrre energia e bio-plastiche. E una qualità eccellente: dopo i primi cinque anni di vita un bambuseto (bosco di bambù) riesce ad assorbire (sequestrare, si dice) fino a 36 volte la CO2 (anidride carbonica) catturata da un bosco tradizionale. Insomma, un impianto naturale di depurazione.
L’uso dei germogli di bambù è poi un mondo a sé stante, in forza delle sue qualità nutrizionali - ferro, zinco, rame e manganese, calcio e potassio, molto silicio – e con una notevole versatilità in termini di preparazioni culinarie. I germogli, infatti, si consumano freschi, precotti o bolliti, in insalate, trifolati, nei sughi, sott’olio, aromatizzati al tartufo, frullati, come maionese e pesto di germoglio di bambù. Oppure in forma di farina di germoglio mista a quelle di cereali per prodotti panificati. A consumarlo per cultura alimentare non è solo il milione di persone della comunità asiatica residente in Italia. Ma anche la clientela prevalentemente italiana che frequenta la capillare rete della ristorazione asiatica (cinese, tailandese e giapponese, su tutte). A Milano, ad esempio, vengono consumate cinque tonnellate di germogli di bambù alla settimana. Con una richiesta inevasa di germoglio fresco. Tanto che Forever Bambù ha un proprio marchio commerciale - “BambIta”: bambù italiano (così i sovranisti si chetano) – col quale vende i germogli di propria produzione.
La società milanese, non a caso, ha comprato un’azienda agricola molto grande proprio a Castiglione della Pescaia, vicino alla tenuta della Badiola (resort Andana). Terreni sui quali dal prossimo aprile inizierà a piantare i primi quaranta ettari di bambù gigante, a regime destinati a diventare 103. Ovverosia il più grande bambuseto d’Italia, in vista di una filiera produttiva che avrà come fulcro proprio la provincia di Grosseto. Dove, nelle campagne di Paganico, Forever Bambù già dal 2017 ha in produzione un’azienda agricola di venticinque ettari.
Questo il résumé della notizia. Dopodiché merita leggersi il profluvio di commenti agli articoli online, su facebook, del Tirreno e della Nazione, per rendersi conto di cosa sia lo zoccolo duro del “pensiero” tetragono e passatista di segno autarchico/campanilista, che primeggia in una bella fetta di opinione pubblica nostrale. Facendo danni culturali come i chicchi di grandine su pescheti e vigne. Oltretutto ammantato di un’aura para-ambientalista, bandiera della biodiversità e della tutela del paesaggio maremmano in pugno.
Si va dal classico «non bastavano i Cinesi» all’allarme per la «biodiversità», la pianta «infestante», il «paesaggio». Fino alle battute su Panda e non meglio precisate speculazioni, o ai giudizi sommari sull’inutilità dell’impresa. Insomma, il solito minestrone di qualunquismo e superficialità, condito di astio e pregiudizi, con una nota di sovranismo à la page in difesa delle piante autoctone.
Poi per fortuna nel mondo reale, c’è chi ci mette del suo. Facendo progetti ambiziosi. E il milieu agricolo in provincia di Grosseto, al di là delle note e apprezzate eccellenze agroalimentari costruite sui prodotti tradizionali, bisogna riconoscere che in molti casi ha saputo battere la strada dell’innovazione. A partire, ad esempio, sin dagli anni ’80, dalla Riso Maremma, che, a proposito di colture asiatiche, è arrivata a seminare qualche centinaio d’ettari a riso. Coltivazione prima sconosciuta in Maremma. Oppure la scommessa fatta alla Castellaccia (Gavorrano) da Sfera Agricola con i dieci ettari di colture idroponiche in serra - pomodori ciliegini e basilico - che ha stizzito i sacerdoti dell'agricoltura in pieno campo. Quella dei produttori di Marijuana (Cannabis) terapeutica, che ha offeso i reazionari benpensanti. Quella della famiglia Loacker che ha chiuso accordi di coltivazione per centinaia d’ettari a noccioleto. O ancora quella della famiglia Pallini, che a Principina Terra ha portato un grosso allevamento di bufale da latte per avviare una produzione significativa di mozzarelle e formaggi. Fino ai coltivatori di zafferano. O agli acquacoltori di Ansedonia, che circa quarant’anni fa sovvertirono il paradigma della pesca in mare in un territorio con 110 chilometri di costa. Ma anche il progetto in corso d’introdurre l’olivicoltura intensiva su circa 500 ettari di terreni pianeggianti tra Grosseto, Roccastrada e Castiglione della Pescaia. Che ha subito inguastito i cultori dell’olivicoltura tradizionale.
Se anche il bambù made in Italy, coi suoi utilizzi molteplici, sarà un fenomeno di “asparizione” (comparsa di qualcosa seguita quasi simultaneamente dalla sua scomparsa) oppure un successo produttivo, lo diranno i dati economici negli anni a venire.
Quel che oggi è determinante, sarebbe mettere all’angolo il pensiero debole che in provincia di Grosseto, nel manifatturiero come in agricoltura, si barrica nel recinto del localismo autoreferenziale a difesa di presunte intoccabili tradizioni. Che ricorda i luddisti che all’inizio del XIX secolo contrastavano l’avvento delle macchine industriali, o i contadini che alla fine dello stesso secolo distruggevano le prime mietitrebbie.
Come se poi, in definitiva, l’agricoltura per sua stessa natura non fosse un corpo vivo e in eterno mutamento. Oppure, come se l’introduzione di colture «alloctone» - come piace tanto dire ai giannizzeri dell’«autoctono» - fatte nel XVI secolo dall’ottimo Cristoforo Colombo, e poi dei Conquistadores di ritorno dalle Americhe, fosse stata alla fin fine una semplice operazione di killeraggio del farro, e del grano-saraceno. A sua volta arrivato in Italia dall’Asia centrale a metà del XIII secolo.
Perché giova ricordare ai sovranisti dell’italianità del cibo, che proprio dall’America centrale, del nord e del sud, arrivano notoriamente alcuni dei protagonisti della cucina nazionale. Come pomodoro, patata, mais, fagiolo, peperone e peperoncino, zucca e zucchino. E poi tabacco e tacchino. E che dagli eterni rivali della viticoltura francese, vengono vitigni come Cabernet Souvignon, Sirah e Merlot, per dirne tre, alla base di vini ritenuti orgoglio nazionale.
Motivo per cui, a chiusura del cerchio, possono stare tutti tranquilli. Ché un bambuseto di 103 ettari seminato a bambù gigante, non costituisce una minaccia alla biodiversità, che invece arricchisce. Né infesterà altre specie vegetali, dal momento che sarà una coltura esclusiva nei campi ad essa dedicati. Né saremo invasi dai Cinesi, o dai Giapponesi. Che invece tutti vorrebbero come turisti. Dimmi un po’ te.
Magari la Fiat- anzi Stellantis - ci apre una fabbrica di Panda....
RispondiEliminapossibilmente in bambù, ecologiche.....
Eliminache poi sono anche belli da vedersi!!!!
RispondiEliminadè!! E' vero!
EliminaOttimo articolo e ben venga, quel che è sano e naturale, ma TUTTI DI quel che avete menzionato sono grosse aziende futuriste E anche con ottimi uffici Marketing che se vogliono far credere una cosa all'opinione pubblica ci riescono e bene. Va bene il fusion ma perché scartare fattori com'è il paesaggio, la tradizione, specie autoctone, sistemi agricoli più slow, di piccoli produttori che come valore aggiunto non hanno solo profitto ma la passione, il culto dei tempi e un amore viscerale per la propria terra. Tutto per dire che non dobbiamo avere pregiudizi ma anche non scordarci da dove siamo venuti e dove siamo arrivati. E ora, come tradizione vuole... brindiamo con un ottimo Ciliegiolo in purezza o del San giovese, su un piatto di cinghiale e bambù.
RispondiEliminaBono il Ciliegiolo! comunque non si tratta di scartare tradizione e paesaggio, ma di non utilizzarli come pretesto per perpetrare l'immobilismo.....Te hai per caso visto com'era la Maremma (intendo il paesaggio rurale) negli anni '80?.......e com'è oggi......?
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