⏰⏰⏰ #tiromancino – Lavoro: quello che ci sarebbe, ma non c’è. Maremma sul piano inclinato del lavoro povero e dequalificato


 









Sono almeno due settimane che la discussione pubblica sulla mancanza di personale stagionale, specialmente per ristorazione e hotellerie, infiamma gli animi. Il #tiromancino precedente è stato in questa scia, con 1600 lettori che si sono affacciati al blog e circa 200 commenti disseminati fra i vari gruppi dove è stato condiviso il post dell’articolo.

 

Il lavoro stagionale è stato un pretesto anche per parlare in generale dei molti lavori sottopagati. Uno dei guasti gravi ingenerati dal meccanismo di accumulazione del turbocapitalismo dominante da un ventennio, che concentra ricchezza nelle mani di pochi a scapito di molti.

 

Ma questa è solo una faccia della medaglia. Ce n’è anche un’altra, anch’essa che non riguarda solo gli stagionali del turismo, ma più in generale il nostro approccio culturale al lavoro. Che negli ultimi anni ha avuto un’evoluzione radicale, e per nulla positiva.

 

A sintetizzare in modo brutale la questione: c’è un problema che attiene alla bassa reputazione sociale attribuita ad alcune tipologie di lavoro, che spinge gli studenti a scegliere indirizzi di studio generalmente scollegati dalla realtà produttiva. Con la conseguenza, a fine studi superiori o universitari, che ragazze e ragazzi s’imbattono nel cosiddetto “mismatch”. Ovverosia il conflitto tra la domanda di lavoro (le aziende) e l’offerta (i lavoratori), che hanno difficoltà a incrociarsi. L’esito è che una bella fetta delle aziende non trovano gli addetti che cercano, mentre molti giovani finiscono per fare lavori per i quali non hanno nemmeno le competenze di base.

 

Il paradosso è che questo non succede solo per i lavori con qualifiche più basse e meno retribuiti, ma anche per quelli che richiedono competenze più specifiche e avrebbero retribuzioni più alte. Oggi, per fare un esempio, è complicato trovare sia un bravo assistente alla persona (impropriamente “badante”), così come un bravo cameriere o un magazziniere, ma anche un idraulico, un falegname o un elettricista. E salendo l’ipotetica scala gerarchica molte altre figure professionali. Tutte indispensabili e tutte molto ricercate dalle imprese.

 

Questo, bisogna avere l’onestà di riconoscerlo, non dipende sempre dalle basse retribuzioni di mercato. Ma molto anche dall’atteggiamento mentale, culturale, di chi cerca lavoro. Che non di rado pretende lo stipendio di un lavoratore maturo senza avere competenze adeguate, e senza avere la pazienza di fare esperienza per averle. Un problema serio col quale tutti i datori di lavoro hanno a che fare. A prescindere dal fatto che ci sono datori di lavoro e datori di lavoro.

 

Lavoro estivo come iniziazione alla vita da adulti

Il tema, scomodo, è quello della cultura del lavoro che viene trasmessa ai figli; al di là della loro indole. Quando ero un ragazzo, fra i 17 e i vent’anni, era piuttosto comune fare l’esperienza del lavoro stagionale come tappa d’iniziazione alla vita adulta. Una pratica che veniva considerata virtuosa da molte famiglie, di ceto basso o medio. Proletarie o borghesi, come si diceva in modo salutare alla fine del secolo scorso.

 

A me personalmente, ma anche a molti miei amici e conoscenti, quell’esperienza fatta per tre anni a conclusione dell’anno scolastico e del primo anno d’università ha insegnato un sacco di cose. Che non era scontato avere la prospettiva dell’università e di un lavoro corrispondente alle aspettative che avevi. Che esistevano lavori con la stessa dignità di quelli che mi aspettavo per me. Che c’era da imparare parecchio dalle persone che consideravo più umili per condizione sociale. Che il lavoro manuale era faticoso: caricare le cassette dell’uva sul rimorchio del trattore e poi sul camion fu illuminante e formativa. Che c’era una gerarchia da rispettare e non importava da dove venivi. Che puntualità e serietà rispetto agl’impegni presi non erano un optional. Col senno di poi ho capito quanta fortuna ho avuto a raccogliere pomodori e uva, fare il lavapiatti e il cameriere (da solo a Londra), trasportare mobili.

 

Oggi va di moda dire che ragazzi e ragazze sono delle leggére (alla maremmana), privi di nerbo e motivazione perché hanno una vita comoda. E come al solito si commette l’errore di generalizzare, o di assolutizzare un concetto solo in base all’esperienza personale.

 

Nuovi simboli riesumano vecchi stereotipi

Tuttavia, bisogna ammettere che è dilagante una sub cultura per la quale il lavoro non bisogna sudarselo, e che questo fa il paio con pregiudizi culturali che declassano molti lavori a poco appetibili perché hanno scarsa reputazione sociale. Una nuova forma di classismo che non è più veicolata dalla legittimazione ideologica delle gerarchie sociali, apparentemente superata. Ma molto più subdolamente da modelli comportamentali e stereotipi comunicativi costruiti sull’esibizione di status symbol.

 

Leggendo lo stesso fenomeno della difficoltà oggettiva a incrociare domanda e offerta di lavoro da una prospettiva diversa, il risultato non cambia. Fino a 10-15 anni fa il sogno nel cassetto dei giovani era fare l’avvocato, il medico, il bancario o il giornalista (per semplificare). Oggi è diventare influencer, fumettista, videomaker, produttori, tuttalpiù manager. Oggi più di ieri molti prendono quel tipo di indirizzo di studi, per poi ritrovarsi delusi dalla vita. E magari per questo motivo anche pretenziosi per le aspettative tradite.

 

Non tutti possono essere imprenditori di sé stessi, non tutti possono raggiungere traguardi d’eccellenza e ricchezza. Ma soprattutto è sbagliato pensare che chi non ce la fa, oppure non ha simili ambizioni, sia per ciò stesso una persona fallita o che socialmente si collochi ai gradini più bassi della scala. Detto in altri termini, un pezzo significativo della difficoltà che oggi s’incontrano sul mercato del lavoro, dipendono da una narrazione culturale stereotipata e normalizzata dei nostri obiettivi di vita. Replicata all’infinito dai media tradizionali e da quelli di quarta generazione: i social media che colpiscono il bersaglio singolo evitandogli il confronto con gli altri. E con la realtà. Nel contesto di una società nella quale il sano conflitto sociale tra istanze diverse, è stato sostituito dall’omologazione degli obiettivi individuali. Per cui l’unica aspirazione legittima, che fa reputazione, è salire i gradini che sono stati instradati. Salvo scoprire che non portano dove si sperava.

 

La Maremma al bivio tra ripresa e regressione

Sociologia da bar, dirà qualcuno. Eppure, tutte le analisi fatte da chi si occupa d’indagare il mercato del lavoro portano alle stesse conclusioni: ci sarebbe molto lavoro, buona parte con qualifiche medio alte, ma spesso mancano le persone per farlo. Perché non hanno la preparazione adeguata, o perché lo rifiutano con motivazioni reputazionali.

 

Attenzione. Questa dinamica distopica si sta accentuando proprio in queste settimane, nelle quali è evidente il rimbalzo clamoroso del ciclo economico, una volta messe alle spalle le ansie da pandemia. In Italia come in provincia di Grosseto, dove, non casualmente, tutti gl’imprenditori che operano nei comparti più dinamici e produttivi di valore aggiunto, come nel settore manifatturiero, lamentano una difficoltà strutturale a trovare giovani da inserire nei propri cicli produttivi. Perché non hanno le competenze richieste o perché rifiutano il tipo di lavoro che gli viene offerto. Una tendenza che fa il paio con le difficoltà del comparto dei servizi turistici. In quella che sembra la tempesta perfetta.

 

Infine, quanto al destino della Maremma e di chi ci vive. Qui c’è un problema ulteriore, che riguarda il mercato del lavoro tanto quanto il modello di sviluppo. Jeronim Capaldo e Özlem Ömer del Global development policy center della Boston University, in una loro analisi sugli effetti dell’accordo commerciale di libero scambio tra Europa e Mercosur (sud America) hanno verificato che dal 2000 al 2014 «in Italia il Pil si è contratto a un tasso medio dello 0,2% all’anno. Riflettendo una stagnazione più profonda rispetto ad altri Paesi. Coi salari reali rimasti stagnanti, cresciuti solo dello 0,4% in 14 anni, mentre la produttività si è contratta del 3,7%, consentendo un aumento della quota di lavoro» [cit. Il Manifesto del 12 giugno].

 

La disuguaglianza tra i redditi è diminuita con uno schiacciamento dei livelli medi verso il basso, sottolinea la ricerca. «Il settore manifatturiero è stato il principale motore della produttività, ma la sua quota di occupazione è diminuita drasticamente e la sua quota di valore aggiunto è rimasta stagnante a un livello basso (circa il 16%), un segnale netto di deindustrializzazione. Tutti i settori stagnanti, come i servizi alle imprese, il commercio al dettaglio, l’alloggio e il cibo, hanno causato la maggior parte della contrazione della produttività, ma sono stati gli unici a creare posti di lavoro». Le proiezioni dei due studiosi indicano che col nuovo accordo Ue-Mercosur soprattutto l’Italia sperimenterà contrazioni della produzione nei settori agricoli e manifatturieri, con trascurabili guadagni in quelli dei mezzi di trasporto e macchinari. Aumenteranno del 30,7% le importazioni alimentari e a godere dell’export industriale (+9,6%) sarà soprattutto la Germania.

 

Ecco, è un esempio parziale. Ma Grosseto e il suo territorio sono uno degli anelli deboli del sistema, perché si è sempre sottovalutato l’apporto di industria e manifatturiero, puntando tutte le fiches sui comparti a basso valore aggiunto, alta intensità di lavoro e salari bassi. Occhio che passare dal primo al secondo mondo è un attimo. Versione più edulcorata di quel boccaccesco detto popolare che recita: «la vita è breve, e prenderlo……è un lampo».





 

Commenti

  1. Condivido ma la sinistra che tu citi ha fatto una politica po co efficiente e poco efficace o sbaglio ?

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