🍈🍈🍈 #tiromancino - L'olivicoltura della Maremma sull'orlo di una crisi di nervi. Ma senza innovazione non c'è futuro







La metafora dell’oro verde non è azzardata per rappresentare la corsa all’impianto di nuovi oliveti in provincia di Grosseto. Dove già da tempo l’olio extravergine d’oliva (oggi si dice olio Evo) costituisce uno dei punti di forza del settore agricolo.

La novità è che gli odierni protagonisti sono gli oliveti intensivi (fino a 1200 piante a ettaro) e soprattutto super-intensivi (da 1600 a 2200 piante a ettaro), con grossi investitori che in provincia stanno facendo incetta di terreni. Cosa che ha fatto drizzare le orecchie ai puristi della coltura olivicola tradizionale, che caratterizza soprattutto i terreni collinari e pedemontani. E che tanta parte ha avuto nella connotazione del paesaggio rurale toscano, contribuendo a farne un archetipo nell’immaginario collettivo.

 

Si fa un po’ troppo presto, tuttavia, a dire olivicoltura. Di olivicolture, infatti, ce ne sono tante, con pratiche agronomiche in continua evoluzione. Per cui non serve a granché tagliare i concetti con l’accetta, e contrapporre tradizionalisti a innovatori. Olivicoltura classica e olivicoltura super-intensiva. Anche perché, considerate le tecniche colturali, subito dopo si apre il capitolo vasto delle strategie di commercializzazione. Insomma, un ginepraio.

 

Per capire dove si sta andando, bisogna avere chiare alcune cose. La prima è che la provincia di Grosseto è un territorio a fortissima vocazione olivicola: nel 2018 il rapporto della Camera di commercio censiva 18mila ettari a olivo, l’80-85 per cento dei quali coltivati in modo tradizionale, e il resto a olivicoltura specializzata. Ma già oggi gli ettari sono almeno 19mila, con una corsa ai nuovi impianti, buona parte dei quali a super-intensivo. Una tendenza che riguarda non solo le grandi aziende come ArteOlio, che ha acquistato o affittato circa 500 ettari, ma anche un numero crescente di aziende di piccola e media dimensione. 

 

Un altro elemento da tenere presente è che circa la metà degli oliveti tradizionali della Toscana, quelli con 70-100 piante a ettaro, soprattutto nelle aree collinari e pedemontane, sono in stato di abbandono. Perché poco produttivi e quindi nel rapporto costi/ricavi non in grado assicurare reddito ai piccoli produttori. Mentre in pianura l’olivicoltura specializzata, fino a 3-400 piante a ettaro, riesce a rimanere produttiva, anche in virtù del fatto che i prezzi dell’Igp Toscano - o della Dop Seggiano - garantiscono una buona remunerazione. Soprattutto grazie all’export.

 

C’è poi il quadro del sistema Paese. Nell’ultima campagna olivicola 2020-2021 l’Italia con circa 250mila tonnellate di olio Evo, è risultato il terzo produttore europeo dietro alla Spagna (1,6 milioni di tonnellate) e per la prima volta alla Grecia, che è arrivata a produrre 265mila tonnellate di extravergine. La produzione oleicola è molto soggetta agli andamenti stagionali e alle rese delle olive, e lo scorso anno l’Italia è arretrata soprattutto per il crollo produttivo di Puglia, Sicilia e Calabria. Mentre, ad esempio, la Toscana ha incrementato di un terzo la propria produzione di olive (che però pesa poco sul totale nazionale).

 

Il paradosso è che per l’olio Evo c’è molto mercato. L’Italia è il primo Paese al mondo per consumo complessivo e pro-capite, e la domanda mondiale di extravergine di oliva è in crescita costante, sia in Europa che sui mercati extraeuropei. Nel nostro Paese – al di là degli andamenti stagionali - la produzione d’olio è però stagnante al di sotto delle 400mila tonnellate all’anno, a fronte di un consumo interno di 500mila tonnellate, e di un export che arriva anche a 600mila. Per cui è evidente che buona parte di consumi interni ed esportazioni sono garantiti da olive non coltivate in Italia. Fra l’altro, l’olio italiano certificato Igp e Dop è quello che nel mondo spunta i prezzi al consumo migliori di tutti. Successo dovuto a più fattori: qualità del prodotto, reputazione e marketing che associa l’olio al territorio. Il caso della Toscana, col suo paesaggio, è emblematico. Come dimostra il fatto che circa un terzo dell’olio etichettato come italiano è imbottigliato nella nostra regione.

 

Tutto ciò significa che ci sono ampi margini di sviluppo per l’olivicoltura nazionale. E che l’olivicoltura super-intensiva, molto più produttiva della tradizionale e più redditizia perché la raccolta delle olive è completamente meccanizzata, viene vista come la scelta per superare il gap produttivo che impedisce all’Italia di conquistare la leadership assoluta. Tenendo però conto del fatto che il super-intensivo non può fare a meno dell’irrigazione a goccia di sostegno alle colture, e che questo soprattutto per le grandi superfici pone il problema dei consumi idrici, e della gestione efficiente della risorsa acqua.

 

In questo quadro s’inserisce la provincia di Grosseto, dove mediamente si producono intorno alle 250mila tonnellate di olive e tra le 2.500 e le 3.000 tonnellate di extravergine d’oliva, buona parte del quale certificato Igp Toscano o Dop Seggiano. Con le sue grandi superfici pianeggianti particolarmente adatte sia all’olivicoltura specializzata, che a quella intensiva e super-intensiva. Terreni che in questi ultimi due-tre anni sono entrati nel mirino dei grossi investitori. Oltre a ArteOlio - che tra risorse proprie e anticipi bancari ha già messo in campo investimenti per almeno 22 milioni di euro – sono in lizza aziende storiche come Antinori e Monini, ma si rincorrono voci che riguardano Bonifiche Ferraresi, investitori svizzeri e molto altro.

 

Non tutti puntano su impianti olivicoli super-intensivi: le tecniche colturali sono variegate, ma in generale si assiste a un incremento del numero di piante per ettaro rispetto a quelli tradizionali e specializzati – variabili dalle 300 alle 2000 – e all’utilizzo sia di cultivar (varietà) toscane, per gl’impianti a più bassa densità, sia delle spagnole Arbosana e Arbequina che alle italiane Maurino-Vittoria, Leccio del Corno e Lecciana, per gl’impianti super-intensivi.

 

Per provare a ricapitolare, pare evidente che nel mondo dell’olivicoltura nei prossimi anni si assisterà allo stesso processo di specializzazione già maturato in passato nel settore vitivinicolo. Con una grande differenziazione dei prodotti – dagli olii mono-cultivar, a quelli biologici, fino ai blend di cultivar nazionali e internazionali, con o senza certificazioni d’origine Dop e Igp, ma anche con l’introduzione sempre più massiccia della tracciabilità del prodotto – e con parallele campagne di comunicazione per educare i consumatori a riconoscere i diversi tipi d’olio.

 

Questa sembra essere la tendenza che investirà il comparto nel medio lungo periodo. Mentre a breve andrà trovato un compromesso che salvaguardi l’olivicoltura tradizionale, soprattutto in collina, evitando che una pratica colturale uccida l’altra con un impatto poco edificante sul paesaggio. E bisognerà anche che siano tenuti separati i canali di commercializzazione tra tipologie diverse di olio extravergine d’oliva. Perché il rischio è che l’omologazione fra produzioni diverse fra loro, porti sia a un abbassamento della qualità che dei prezzi al consumo. Un esito che porterebbe male a tutti, del quale nessuno dovrebbe sentire il bisogno.




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