👀👀👀 #tiromancino – Etruschi fenomeno Pop per alimentare un business culturale. Dispiacendo i cultori dell’ortodossia
Perché a Grosseto gli Etruschi continuano a essere un’eredità mummificata e non un’opportunità di sviluppo economico? Naturalmente all’interno di un contesto qualificato di turismo culturale.
Oggi come oggi, infatti, il misterioso popolo dei Rasenna è più che altro oggetto di culto per una nicchia di appassionati. O al massimo pretesto iniziatico per eruditi alquanto somiglianti a quelli che già sessant’anni fa Luciano Bianciardi perculava con divertita ferocia.
Eppure, di materia prima su cui costruire un progetto serio, magari popolare, che verta sulla valorizzazione del patrimonio culturale senza disdegnare il business, in questo territorio ce ne sarebbe in abbondanza. Non solo i siti archeologici di Roselle, Cosa e Vetulonia, ma anche i musei archeologici di Grosseto e Vetulonia, peraltro capitanati da due direttrici vispe e fattive come Chiara Valdambrini e Simona Rafanelli.
Nonostante la buona volontà di alcuni, infatti, l’impressione è che sui nostri mitologici antenati incomba una cappa di conformismo e serioso sussiego, che ne impedisca un salutare revival in chiave contemporanea attraverso opportune strategie di comunicazione e valorizzazione. Che potrebbero anche avere il non disprezzabile esito secondario di generare posti di lavoro qualificati e un po’ d’indotto economico.
Proprio venerdì scorso, Francesca Ferri ha intervistato sul Tirreno Susanna Sarti, direttrice delle Aree archeologiche nazionali di Roselle, Vetulonia e Cosa. Evidentemente persona competente nel proprio campo, ma nei ragionamenti pur condivisibili che ha fatto appiattita in modo palese sulla logica tradizionale, ortodossa, di gestione delle aree archeologiche. Con ogni probabilità schiacciata da regole amministrative obsolete, e costretta a combattere con il cronico sotto-finanziamento degli investimenti da parte di Ministero e Sovrintendenze. Ma tant’è.
Il problema, allora, è come rendere fruibili in modo diverso aree archeologiche, attirandovi molti più visitatori, e come rivitalizzare la connessa rete museale. Come reperire risorse da dedicare a manutenzioni, mostre e allestimenti. Perché finché il tema all’ordine del giorno sarà quello di trovare soldi ministeriali per sfalciare l’erba, pagare qualche custode in più e provare a fare qualche saltuaria campagna di scavo, è evidente che non si vedrà mai la fine del tunnel. E che il poderoso patrimonio storico culturale che gli Etruschi ci hanno consegnato, continuerà ad essere molto poco frequentato, quindi sconosciuto ai più.
Quelle come Sarti, Rafanelli e Valdambrini, in questo senso, non hanno responsabilità. E vanno solo ringraziate per quel che riescono a realizzare facendo i salti mortali. Bisognerebbe però avere il coraggio di stravolgere il paradigma e portare la battaglia ai livelli superiori. Perché senza una modifica della normativa vigente, e quindi della mentalità che la precede, le cose continueranno a trascinarsi con indolenza.
Separare le competenze sul piano gestionale è il primo passo. Un conto, infatti, è programmare e gestire campagne di scavo, allestimenti, mostre o conferenze scientifiche. Un conto è saper gestire marketing e promozione, realizzare eventi, organizzare visite e attrarre turisti.
A direttori e sovrintendenti le prime incombenze. Ai gestori professionali le seconde. Il fallimento sul nascere dell’ambizioso progetto di realizzare a Grosseto il “Centro nazionale di documentazione sulla Civiltà degli Etruschi”, dovrebbe in questo senso aver insegnato qualcosa. Rischiava di essere l’ennesimo carrozzone pubblico sprovvisto di competenze adeguate a inserire il Centro nel competitivo mercato dei poli culturali, e per fortuna si è avuto la fermezza di prevenire la catastrofe. Ma il problema rimane.
Per questo bisogna avere la lungimiranza di guardare alle esperienze più avanzate maturate nel mondo dei musei, pubblici e privati, gestiti da manager che sui patrimoni artistici hanno saputo costruire un modello di business che consente di finanziare anche studi, acquisizioni, mostre e allestimenti.
Prendiamo ad esempio l’area archeologica di Roselle. È perfettamente inutile far pagare il biglietto due euro, se poi non si hanno i mezzi economici per tenere l’area in ordine o pagare il personale di custodia. Così come sono chiaramente inefficaci gare per affidare al massimo ribasso i servizi di accoglienza e manutenzione ordinaria.
Bisogna invece affidare la gestione integrata dei servizi in cambio di un canone annuo (magari crescente al crescere degl’incassi), consentendo sistematicamente le aperture notturne, la possibilità di organizzare eventi, di vendere merchandising e magari realizzare un ristorante panoramico o un polo multifunzionale in bioedilizia all’interno dell’area archeologica. Insomma, non occorre trasformare il parco archeologico in “Etruscolandia”, ma nemmeno limitarne l’utilizzo alle sole attività tradizionali. Perché l’Archeofilm Festival che si svolge nell’anfiteatro romano di Roselle o i saltuari spettacoli teatrali, sono senz’altro meritori, ma interessano poche decine di persone.
Gli Etruschi, in altre parole dovrebbero diventare un fenomeno Pop. Bisognerebbe cioè incuriosire nuovi segmenti di utenza attirandoli a visitare aree archeologiche e musei con pretesti non ortodossi. Dalle cene ai festival culturali a contenuto non archeologico, dai concerti agli eventi a tema, dal videomapping alle residenze artistiche, passando per degustazioni, corsi di formazione, eventi benefici o meeting aziendali. E chi più ne ha più ne metta. Un approccio per così dire “multicanale”, che non tradirebbe la vocazione conservativa e didattica dei luoghi. Ma la esalterebbe facendoli scoprire ed apprezzare a molti che continuano a ignorarli. Se poi tutto questo fosse fatto in rete con le altre aree archeologiche e coi due musei etruschi, sarebbe il migliore dei mondi possibili.
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