🛠⚙️🖱💻 #tiromancino – Come in Italia, anche a Grosseto le imprese non trovano gli addetti che cercano
Strano ma vero. In un paese con 2.3 milioni di disoccupati e 13.5 milioni di persone “inattive” rispetto alla ricerca di un lavoro, le imprese fanno una fatica bestiale a trovare lavoratori che abbiano un profilo professionale adeguato ai loro bisogni. E contrariamente a quel che si pensa, troppo spesso questo non dipende dai bassi salari ma da una difficoltà strutturale nell’incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Perché ciò che le aziende chiedono in termini di competenze professionali non trova riscontro in coloro che chiedono di lavorare.
Naturalmente questo vale anche per la provincia di Grosseto. Nonostante sotto il profilo socioeconomico sia una realtà tutt’altro che dinamica, con un tessuto produttivo, salvo eccezioni, piuttosto parcellizzato e generalmente afflitto da una bassa produttività.
Non è una leggenda metropolitana. E diversamente dalla vulgata prevalente, il problema del reclutamento di personale non riguarda solo il comparto turistico ricettivo, della ristorazione e della manodopera agricola. Tutti ambiti nei quali le competenze richieste sono per lo più di livello medio basso. A soffrire in modo particolare, infatti, sono le imprese dei servizi nel terziario avanzato e quelle manifatturiere.
Un problema anche grossetano
Basta parlare con gl’imprenditori. che trasversalmente ai vari comparti ripropongono sempre lo stesso “cahier de doléances”: qualifiche professionali introvabili, competenze troppo elevate per mansioni intermedie, rifiuto del lavoro manuale perché considerato poco prestigioso socialmente, scarsa motivazione al lavoro dei candidati, poca voglia di “sudare” per professionalizzarsi.
Prendendo in considerazione quattro esempi di altrettante aziende grossetane. Noxerior, produttore di generatori di azoto e ossigeno per uso industriale e medicale, a partire dal gennaio prossimo raddoppierà i propri dipendenti per far fronte ad un incremento esponenziale delle commesse. Hanno dovuto sudare le metaforiche sette camicie per trovare addetti competenti in idraulica e montaggio di parti meccaniche. Reclutandoli solo fuori provincia.
Tecno Seal, azienda del comparto meccanico siderurgico che produce “anodi sacrificali” (detti “zinchi”) per la nautica, si è trovata costretta a rilevare piccole aziende meccaniche per assorbirne il personale: tornitori e montatori meccanici. Terranova, impresa grossetana del settore informatico, leader italiana nei software gestionali per contatori di gas ed energia elettrica, ha una difficoltà enorme a reperire ingegneri elettronici e informatici, ma anche semplici periti elettrotecnici. “Importandoli” da dove possibile. L’officina meccanica Pugliese e Benelli, invece, si è trovata nelle condizioni di non acquisire lavori, per la difficoltà a trovare operai meccanici con un minimo di esperienza. Ma l’elenco potrebbe continuare.
Valutare questo fenomeno semplicemente chiamando in causa le retribuzioni inadeguate, costituisce un espediente retorico nel quale è bene non incorrere. Per quanto sia un problema reale, infatti, questo aspetto non esaurisce di per sé la questione. Ma costituisce semplicemente una delle molte variabili che concorrono al mancato incrocio tra domanda e offerta di lavoro.
Fenomeno che, come spiega il portale economico lavoce.info, stando alla rilevazione Istat si traduce in un «tasso di posti vacanti dell’1.8 per cento, corrisponde a circa 400 mila posti di lavoro aperti. Un livello non così elevato se comparato a quello di altri Paesi, ma il più alto dal 2016, quando inizia la serie che copre il totale delle imprese».
Dall’ottica delle aziende
Questione che assume tinte più fosche considerandola dal punto di vista delle imprese. Secondo il monitoraggio compiuto da Unioncamere attraverso il proprio strumento Excelsior, infatti, a fronte di «quasi 465mila assunzioni programmate dalle imprese per novembre, (+201mila rispetto allo stesso mese del 2020 e +116mila in confronto a novembre 2019)», c’è il rischio concreto di non farne il «38.5% per le difficoltà a trovare le professionalità richieste. Difficoltà che rispetto al 2019 è cresciuta di circa 8 punti percentuali, passando dal 30,9% all’attuale 38,5%».
Anche tenendo conto che a crescere maggiormente sono i contratti a tempo determinato – più 133mila e più 90mila su novembre 2020 e 2019, rispettivamente - e che quindi potenzialmente si tratti di lavori poco appetibili, tuttavia è evidente che c'è una distorsione di fondo nell’incrocio tra domanda e offerta sul mercato del lavoro.
Particolarmente difficili da reperire le figure professionali da inserire nelle aree aziendali di “installazione e manutenzione” (53,8%), “sistemi informativi” (51,6%), “progettazione e ricerca&sviluppo” (51,1%), “produzione beni ed erogazione servizi” (42,4%) e “trasporti e logistica” (40,0%). Una situazione che riguarda evidentemente anche settori del lavoro molto meno qualificati, almeno rispetto al corso di studi che li presuppongono. Dall'assistenza alla persona ai braccianti agricoli, dai magazzinieri agli operai generici. Solo per fare qualche esempio.
Le cause
Stando così le cose, c'è da chiedersi cosa ci sia a monte. Vista la dimensione del fenomeno, infatti, è lapalissiano che le concause sono tante. E non tutte dello stesso tipo.
La prima causa, alla quale si pensa per ultima, è la crisi demografica che oramai costituisce un problema di sistema: la denatalità degli ultimi 30-40 anni ha fatto sì che oggi ci siano pochi giovani in termini numerici. E questo a cascata genera un problema nel mondo del lavoro. Motivo per cui, fra le tante considerazioni, bisognerebbe smetterla di fare demagogia sull'immigrazione clandestina per aizzare la pancia dell'opinione pubblica, mettendo mano velocemente a un sistema di reclutamento dai Paesi del secondo e terzo mondo. Come, peraltro, già avviene in settori strategici quali la sanità e l'assistenza alla persona.
C'è poi un problema enorme che riguarda i criteri coi quali le famiglie spingono i propri figli a scegliere il corso di studi. Contribuendo a formare potenziali nuovi disoccupati. Incapaci di inserirsi nel mondo reale del lavoro. Collegato a questo, si aggiunge il tema culturale della “reputazione sociale” che viene attribuita ad alcuni lavori, a discapito di altri. Oggi, non a caso, tutti aspirano a essere influencer, film maker, content writers, attori, creativi e via discorrendo. E fare il meccanico, l'idraulico, l'elettricista, il montatore, l'operaio edile o l'operaio agricolo, viene considerata una macchia non contemplata nel panorama delle proprie aspirazioni lavorative.
Un altro tema enorme è quello dell'inefficienza generalizzata, salvo eccezioni nemmeno troppo rare, del sistema della formazione professionale. Da quella per le professioni che richiedono minori competenze avanzate, alla formazione di livello intermedio, fino a quella di fascia alta. Che con ogni evidenza nella maggioranza dei casi continuano a sfornare addetti che nella migliore delle ipotesi faranno lavori diversi da quelli per cui sono stati formati.
Infine, ma non ultimo per importanza, il tema scivoloso dell'etica del lavoro. Trent’anni abbondanti di individualismo, culto dell'estetica e dell'esteriorità, esaltazione delle scorciatoie per arrivare ai propri obiettivi e della furbizia come virtù sociale per affermarsi senza fare fatica - sia detto senza alcun intento moralistico - hanno permeato ampie fette di diverse generazioni. Per cui oggi non sono pochi, anche se non sono la maggioranza, quelli che preferiscono rifiutare un'occasione di lavoro e lasciar passare il tempo perché hanno le spalle coperte da “genitori paracadute”. O da rendite economiche, anche non cospicue, che gli consentono di sopravvivere. In Maremma, detti leggére.
In definitiva, soluzioni semplici non ce ne sono. Per questo non servono analisi superficiali, né lo sconfinamento sul terreno della retorica. Sia osservando le cose dal punto di vista degli imprenditori, che da quello dei lavoratori dipendenti.
Buongiorno, ho letto il suo articolo, molto generico, mi perdoni, ma una concausa di uesto problema è la non comunicazione fra aziende del territorio e lo stesso ufficio di collocamento. Oltre al fatto, su cui penso abbia pienamente ragione, non ci sono corsi di formazione, che possano aiutare i disoccupati a formarsi in alcuni settori da lei nominati.
RispondiEliminaIo ne ho aperta una invece, nel settore artigianale, per cercare di aiutare i disoccupati a formarsi e le aziende a poter assumere(come vorrebbero) personale qualificato.
Ma le persone non credono molto nella formazione professionale, ed è un grave errore.